“Si sapeva tutto”, “È tutto archiviato”. Se Renzi, De Benedetti & C. pensano di chiudere con queste due frasi lo scandalo della soffiata dell’allora premier all’Ingegnere sul decreto banche popolari che fece guadagnare al secondo 600 mila euro in un giorno, si illudono. Intanto perché la prima frase è una bugia: il 15 gennaio 2015, quando De Benedetti e Renzi si incontrano, del decreto nessuno sa nulla: a parte ovviamente chi ha appena deciso di vararlo (Renzi) e chi ha appena parlato con lui (De Benedetti). L’indomani mattina l’Ingegnere gira la soffiata al suo broker Gianluca Bolengo ordinandogli di investire 5 milioni in azioni di banche popolari: appena in tempo, perché alle 17.58 di quella sera, a Borse chiuse, l’Ansa annuncia che il prossimo Consiglio dei ministri (che si terrà il giorno 20) riformerà le Popolari.
Non è vero, come dicono Renzi e De Benedetti, che del decreto avessero già parlato i giornali e addirittura che l’Ubs avesse tenuto una conferenza stampa per suggerire investimenti nelle Popolari (l’Ubs l’ha smentito). La riforma fu un fulmine a ciel sereno per tutti (fuorché per l’Ingegnere): il 17 gennaio la Repubblica la definì un “blitz di Renzi nel mondo del credito… un blitz, se sarà così, custodito molto gelosamente (con tutti, tranne che con De Benedetti, ndr) tanto che nelle bozze del provvedimento circolate finora non ve n’è traccia”. E non parlò di decreto, ritenendo ancora possibile il disegno di legge.
Ma anche la seconda frase “È tutto archiviato” è una menzogna. Nel gennaio 2015 la Consob apre un’istruttoria, acquisisce la telefonata De Benedetti-Bolengo e sente alcuni testimoni: alla fine, il 12.4.2017, con voto a maggioranza e astensione del presidente Vegas, archivierà la pratica che riguarda solo gli aspetti amministrativi della vicenda. Ma non ha competenze su quelli penali, infatti li segnala subito alla Procura di Roma, indicando precisamente i possibili reati e autori. Per motivi misteriosi, al premier Renzi, cioè al titolare delle informazioni privilegiate, Consob non contesta nulla. A De Benedetti addebita il reato di insider trading primario “per avere comunicato a Bolengo una informazione privilegiata” proveniente dall’altro insider primario (Renzi). A De Benedetti e a Bolengo, l’illecito amministrativo di insider trading secondario per aver “disposto che fossero acquistate azioni di banche popolari basandosi su detta informazione privilegiata”. E al solo Bolengo varie condotte penali di ostacolo alla Vigilanza (la Consob), per aver omesso di avvisarla e averle nascosto il nome di De Benedetti. Che fa la Procura?
Scrive l’informativa Consob, che segnala precisi reati in capo a De Benedetti e Bolengo, nel “modello 45”, quello degli “atti non costituenti notizia di reato”, cioè il cassonetto dove le Procure scaricano tutte le denunce infondate e folli. Ma questo pare espressamente vietato dal Codice di procedura penale e da una circolare esplicativa emanata dal ministero della Giustizia il 21.4.2011 e recepita da tutti i Procuratori generali. La circolare vuole stroncare l’uso scorretto che fanno molti pm del modello 45 (infilandoci notizie di reato scomode per lasciarle dormire fino alla prescrizione o per archiviarle in via amministrativa senza passare dal gip) e “assicurare correttamente il vaglio giurisdizionale sulla valutazione della notitia criminis”, che sempre “deve essere rimessa al giudice” e non “eluso” con l’“impropria archiviazione diretta degli atti” da parte del pm nel modello 45. Quindi, recita la circolare, il modello 45 è “destinato dal legislatore all’iscrizione delle sole notizie prive… di qualsiasi rilevanza penale e non meritevoli di alcun approfondimento investigativo, poiché attinenti a fatti che, seppure rispondenti al vero, non siano riconducibili in astratto ad alcun illecito penale (ad esempio l’esposto di un automobilista che si dolga del verbale di infrazione al codice della strada contestatogli dal vigile urbano); e non anche alle notizie che descrivono condotte sussumibili sotto fattispecie criminose, anche quando appaiono prima facie palesemente infondate nel merito (proseguendo nell’esempio, l’esposto dell’automobilista che, sia pure pretestuosamente, contesti il verbale di infrazione del vigile, assumendo che sia stato commesso un falso o un abuso)”.
In questo secondo caso, cioè quando un cittadino fa una denuncia circostanziata su un’ipotesi di reato di Tizio, anche se appare palesemente infondata, il pm deve iscrivere Tizio nel registro delle notizie di reato (“modello 21”) e chiederne poi l’archiviazione al giudice. Questo vale a maggior ragione se il pm, pur sospettando che tutto finirà archiviato, ritiene di dover compiere degli atti di indagine: in questo caso, anche se ha iscritto il fatto a modello 45, deve procedere a “una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato” (modello 21). Insomma “è evidente che non si possa iscrivere nel registro degli atti non costituenti reato (modello 45) un’informativa con la quale viene riferito un fatto che integra inequivocabilmente un reato”. E figurarsi se si può farlo quando a segnalare sei reati è la Consob; e quando si compiono atti di indagine, come fa la Procura di Roma sul caso Renzi-De Benedetti. Lì, pur non delegando indagini al nucleo valutario della Gdf che già lavorava per la Consob, il pm ha comunque fatto qualche pallida indagine, disponendo una consulenza tecnica e interrogando Renzi, De Benedetti e Bolengo. In questo caso, par di capire dalla circolare ministeriale, la via maestra sarebbe stata l’iscrizione dei tre nel registro degli indagati (modello 21) per insider trading e/o ostacolo alla vigilanza.
Il Testo Unico della Finanza del 1998 sull’insider trading (in parte depenalizzato nel 2004 per la parte degli insider secondari) pare chiaro: commette quel reato “chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi, con strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio…”.
Parole che sembrano cucite addosso sia a Renzi (possiede informazioni privilegiate sul suo decreto in ragione della sua funzione pubblica: l’insider primario, anzi l’insider premier), sia a De Benedetti e a Bolengo (l’uno, insider primario anche lui, fa acquistare all’altro, insider secondario, le azioni delle Popolari per conto proprio, utilizzando le informazioni medesime). Il che non significa che, una volta indagati, i tre dovessero per forza essere rinviati a giudizio e condannati: avrebbe anche potuto emergere che tutti e tre, o alcuni dei tre, fossero innocenti. Ma a deciderlo, per tutti, sarebbe stato il gip con un provvedimento motivato, nella massima trasparenza.
Invece il pm di Roma indaga a modello 21 Bolengo, cioè il terzo anello della catena. Ma non i primi due, cioè Renzi (l’insider di De Benedetti, secondo lo stesso De Benedetti) e De Benedetti (il mandante di Bolengo), che vengono sentiti come semplici testimoni. Poi la Procura chiede l’archiviazione per Bolengo al gip, che da due anni non ha ancora deciso se disporla o respingerla, mentre non potrà pronunciarsi su Renzi e De Benedetti, ormai al sicuro nel cassonetto del modello 45.
Tutto ciò viene alla luce mentre il pm di Napoli Henry John Woodcock viene trascinato dinanzi al Csm per rispondere di “inescusabile negligenza” e “grave violazione del diritto di difesa” per aver fatto la stessa cosa della Procura di Roma, ma nell’inchiesta Consip, dove non iscrisse nel registro degli indagati Filippo Vannoni e lo sentì come testimone. Mentre la Procura di Roma che ha così bene indagato sull’insider trading apre un’inchiesta sulla fuga di notizie sulla sua richiesta di archiviazione dalla Commissione parlamentare banche. E mentre l’Anticorruzione apre un’istruttoria su Spelacchio. Giustizia è fatta.
chi è il gegnio della finanzia che fa 600 mila soldi in pochi giorni ?
eccolo qui
Una cavalcata lunga oltre mezzo secolo. La carriera di imprenditore di Carlo De Benedetti si lega strettamente alla storia dell’Italia repubblicana. Rientrato in patria dalla Svizzera nel ’45, dove si era rifugiato con la famiglia di origini ebraiche per sfuggire alla deportazione in Germania. Classe 1934, prende la laurea in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino nel ’58. Giusto il tempo di chiudere i libri e il padre Rodolfo lo fa entrare nell’azienda di famiglia, la Compagnia italiana tubi metallici. La svolta arriva però più di un decennio dopo, era il 1972, quando acquista assieme al Fratello Franco (che di cognome però fa Debenedetti, tutto attaccato come il padre Rodolfo) la Gilardini, società quotata alla Borsa di Milano che fino ad allora aveva operato nell’immobiliare.
A casa Agnelli - L’Ingegnere cambia radicalmente settore di business e la trasforma in una holding, la prima di una lunga serie, impegnata nell’elettromeccanica. Ma proprio attraverso la Gilardini De Benedetti può compiere il primo grande passo nei salotti buoni dell’economia italiana. Era il ’76 quando, grazie all’appoggio dell’ex compagno di scuola Umberto Agnelli, viene nominato amministratore delegato della Fiat, portando in dote il 60% delle azioni Gilardini che cede ai suoi nuovi «padroni» (si fa per dire), in cambio di un 5% del Lingotto. Ma l’idillio dura poco: tre mesi e la luna di miele con la dinasty piemontese dell’auto finisce. De Benedetti si dimette. Sulla vicenda si fece in quei mesi una varietà sconfinata di ipotesi. La più suggestiva riferiva di una scalata tentata dai due fratelli (Carlo aveva portato alla corte degli Agnelli anche Franco), alla Fiat con l’appoggio di una cordata svizzera. La verità, al riguardo, probabilmente non è ancora stata scritta. La rottura, comunque, è traumatica. Le vie dell’Ingegnere e quelle dell’Avvocato per molti anni si incroceranno e non sempre in maniera amichevole. Gli Agnelli, su indicazione di Mediobanca affidano la guida unica del gruppo automobilistico all’altro astro nascente del gruppo: Cesare Romiti che resterà a cavallo per i successivi ventidue anni.
Affari sfumati - L’Ingegnere, dal canto suo inaugura al Lingotto una lunga serie di affari sfumati o finiti maluccio, dai quali però – e questa sarà una costante in tutta la sua carriera imprenditoriale – è uscito indenne. Anzi: con le tasche piene. Chiusa la parentesi nelle quattro ruote, nel dicembre di quello stesso anno, il 1976, rileva dai conti Bocca le Concerie industriali riunite, che trasforma in breve in una holding industriale ribattezzandola Cir. Abbandonato l’originale business nella lavorazione dei pellami, comincia la campagna acquisti che lo porta, nel '78, a guidare l'Olivetti.
Patto con Visentini - A condurre le trattative è Bruno Visentini che guida l’azienda in rappresentanza di un malfermo patto di sindacato allestito da Mediobanca. Gli splendori raccontati nella fiction tv interpretata da Luca Zingaretti sono lontani. L’avventura nell’Elea, il calcolatore nato forse troppo presto, è stato venduto alla General Electric che abbandonerà il progetto. Anche i membri del patto di sindacato non vedono l’ora di trovare una soluzione e uscire. La Fiat, con l’entrata di De Benedetti venderà immediatamente la sua quota. Dalla plancia di comando del gruppo di Ivrea intercetta il boom dell’informatica e dei personal computer. Dalla fabbrica di piemontese esce l’M24, il computer europeo di maggior successo nei primi anni Ottanta. Ma pure in quel caso il finale non è stato felice. L’alleanza con la AT&T, in quel momento la più grande compagnia telefonica del mondo, doveva lanciare l’azienda italiana nell’olimpo dei grandi fabbricanti mondiali. Gli americani dovevano superare il trauma dello spezzatino: l’autorità Antitrust aveva ordinato di fare a pezzi il colosso dando vita alle sette “Baby Bell”. L’alleanza con Olivetti era sembrato ai vertici di quel che restava di AT&T il modo migliore per riprendere la leadership mondiale. A suggellare il successo dell’iniziativa, celebrato sui giornali di tutto il mondo con tonnellate di miele, doveva essere l’accesso, per gli italiani, ai Bell Laboratories, il centro di ricerche del colosso texano che in quel momento rappresentava la frontiera dell’innovazione all’incrocio tra computer e telefono.
Arriva AT&T - Gli americani presero anche una quota nel capitale di Olivetti come promessa di fedeltà eterna ma i computer che partono da Ivrea per gli Stati Uniti restano invenduti nei magazzini. Di fronte al fallimento AT&T prepara il divorzio: prima dichiara che la partecipazione nel gruppo italiano ha solo carattere finanziario. Finito il boom della prima informatizzazione, l’Olivetti non sa fare il passo successivo che condusse i colossi del settore a produrre non più strumenti di lavoro ma dispositivi elettronici di moda. Come è accaduto alla Apple.
E proprio attorno all’azienda di Cupertino e al suo fondatore lo scomparso Steve Jobs, si dipana un altro degli affari mancati dell’Ingegnere.
No a Steve Jobs - Erano i primi anni ’80 quando De Benedetti nella Silicon Valley con un team di 300 progettisti italiani della Olivetti, vede Jobs. Sponsor dell’incontro Elserino Piol, allora direttore generale del gruppo, diventato successivamente uno dei maggiori venture capitalist italiani (è stato lo scopritore di Tiscali). «Steve Jobs mi chiese se ero disposto a mettere un milione di dollari di allora per avere il 20% dell’azienda», confessò De Benedetti tempo dopo, «io dissi a Piol: non stiamo a perdere tempo con questi due ragazzi, abbiamo cose più serie da fare». Oggi quell’investimento varrebbe oltre 90 miliardi e soprattutto avrebbe consentito di scrivere una storia molto diversa per l’industria elettronica italiana. Ma comunque la storia sarebbe stata diversa se nel 1981 non avesse tentato, con una mossa incomprensibile di diventare anche banchiere. Aveva preso il 2% del Banco Ambrosiano che la gestione di Guido Calvi aveva portato sull’orlo del fallimento. Era stato proprio il «banchiere dagli occhi di ghiaccio» a offrirgli la vicepresidenza forse nel tentativo di costruirsi l’ultimo salvagente. La convivenza sarebbe durata appena due mesi e la liquidazione di 40 milioni aveva dato, soprattutto, l’impressione del prezzo pagato da Calvi per il silenzio dell’Ingegnere. Due processi e poi l’assoluzione in Cassazione. Per non parlare della scalata alla Sgb, nel 1988. La società possiede mezzo Belgio e sembra una preda facile se non fosse protetta dai francesi di Suez. Lo scontro di Borsa si conclude con la vittoria del blocco franco-belga per 51% a 49%. L’ingegnere che era sbarcato a Bruxelles annunciando «la fine della ricreazione» torna in Italia sconfitto. Impiegherà tre anni a disincagliare l’investimento
Addio a Ivrea - Nel ’98 De Benedetti molla l’Olivetti, entrata in una crisi profonda come buona parte dei produttori di computer. Le azioni nel frattempo sono crollate da 21mila lire a 600 lire. Una distruzione di ricchezza di almeno 15mila miliardi di vecchie lire. Al comando rimane Roberto Colaninno che l’anno successivo lancia un’Opa su Telecom da 61mila miliardi delle vecchie lirette. Ma questa è un’altra storia. Prima di passare la mano ebbe il tempo di lanciare la Omnitel, secondo operatore di telefonia dopo la Tim. Valutata 750 miliardi di lire quando, era il ’94, si aggiudica la licenza Gsm, è stata poi rivenduta ai tedeschi della Mannesman per 14mila miliardi. Gran colpo per l’ingegnere. Molto meno per la telefonia tricolore, anche se la società, finita in pancia all’inglese Vodafone dopo la scalata ostile alla Mannesmann, conserva in Italia un forte profilo industriale. Non grazie all’Ingengere.
Il fondo M&C - Un’altra tappa di quel «capitalismo cannibale» - come lo ha definito Mario Giordano – riguarda la M&C, acronimo che sta per Management e Capitali. Fondata nel 2006 per risanare le imprese in crisi si è segnalata soprattutto per l’acquisto della Domopak, storico marchio di prodotti per la cucina, nota per le pellicole con cui proteggere gli alimenti, rilevata assieme al concorrente Cuki. Subito i primi 190 licenziamenti, scioperi, proteste. Dopo qualche mese non si è saputo più nulla fino all’inizio del 2009, quando le due società produttrici di pellicole trasparenti e in alluminio finiscono alla Comital di Corrado Ariaudo, ex ad proprio di M&C.
Cdb Web Tech - In mezzo tante operazioni dai confini incerti come quella di Cdb Web Tech nata da una costola di Aedes, una vecchia immobiliare per anni controllata dall’Accademia dei Lincei. Poi c’è il coinvolgimento in Tangentopoli per le macchine vendute da Olivetti a Poste. Lo scontro con Berlusconi per il controllo della Mondadori. È la “battaglia di Segrate” che venticinque anni dopo gli frutterà un risarcimento di circa 350 milioni di euro. I soldi, cioè, che in questo momento consentono al gruppo di evitare di crollare nel buco nero di Sorgenia. Infine l’acquisto del gruppo Espresso-Repubblica. Certamente il miglior affare dell’Ingegnere. Ma a crearlo erano stati Scalfari e Caracciolo. Non lui.
Non è vero, come dicono Renzi e De Benedetti, che del decreto avessero già parlato i giornali e addirittura che l’Ubs avesse tenuto una conferenza stampa per suggerire investimenti nelle Popolari (l’Ubs l’ha smentito). La riforma fu un fulmine a ciel sereno per tutti (fuorché per l’Ingegnere): il 17 gennaio la Repubblica la definì un “blitz di Renzi nel mondo del credito… un blitz, se sarà così, custodito molto gelosamente (con tutti, tranne che con De Benedetti, ndr) tanto che nelle bozze del provvedimento circolate finora non ve n’è traccia”. E non parlò di decreto, ritenendo ancora possibile il disegno di legge.
Ma anche la seconda frase “È tutto archiviato” è una menzogna. Nel gennaio 2015 la Consob apre un’istruttoria, acquisisce la telefonata De Benedetti-Bolengo e sente alcuni testimoni: alla fine, il 12.4.2017, con voto a maggioranza e astensione del presidente Vegas, archivierà la pratica che riguarda solo gli aspetti amministrativi della vicenda. Ma non ha competenze su quelli penali, infatti li segnala subito alla Procura di Roma, indicando precisamente i possibili reati e autori. Per motivi misteriosi, al premier Renzi, cioè al titolare delle informazioni privilegiate, Consob non contesta nulla. A De Benedetti addebita il reato di insider trading primario “per avere comunicato a Bolengo una informazione privilegiata” proveniente dall’altro insider primario (Renzi). A De Benedetti e a Bolengo, l’illecito amministrativo di insider trading secondario per aver “disposto che fossero acquistate azioni di banche popolari basandosi su detta informazione privilegiata”. E al solo Bolengo varie condotte penali di ostacolo alla Vigilanza (la Consob), per aver omesso di avvisarla e averle nascosto il nome di De Benedetti. Che fa la Procura?
Scrive l’informativa Consob, che segnala precisi reati in capo a De Benedetti e Bolengo, nel “modello 45”, quello degli “atti non costituenti notizia di reato”, cioè il cassonetto dove le Procure scaricano tutte le denunce infondate e folli. Ma questo pare espressamente vietato dal Codice di procedura penale e da una circolare esplicativa emanata dal ministero della Giustizia il 21.4.2011 e recepita da tutti i Procuratori generali. La circolare vuole stroncare l’uso scorretto che fanno molti pm del modello 45 (infilandoci notizie di reato scomode per lasciarle dormire fino alla prescrizione o per archiviarle in via amministrativa senza passare dal gip) e “assicurare correttamente il vaglio giurisdizionale sulla valutazione della notitia criminis”, che sempre “deve essere rimessa al giudice” e non “eluso” con l’“impropria archiviazione diretta degli atti” da parte del pm nel modello 45. Quindi, recita la circolare, il modello 45 è “destinato dal legislatore all’iscrizione delle sole notizie prive… di qualsiasi rilevanza penale e non meritevoli di alcun approfondimento investigativo, poiché attinenti a fatti che, seppure rispondenti al vero, non siano riconducibili in astratto ad alcun illecito penale (ad esempio l’esposto di un automobilista che si dolga del verbale di infrazione al codice della strada contestatogli dal vigile urbano); e non anche alle notizie che descrivono condotte sussumibili sotto fattispecie criminose, anche quando appaiono prima facie palesemente infondate nel merito (proseguendo nell’esempio, l’esposto dell’automobilista che, sia pure pretestuosamente, contesti il verbale di infrazione del vigile, assumendo che sia stato commesso un falso o un abuso)”.
In questo secondo caso, cioè quando un cittadino fa una denuncia circostanziata su un’ipotesi di reato di Tizio, anche se appare palesemente infondata, il pm deve iscrivere Tizio nel registro delle notizie di reato (“modello 21”) e chiederne poi l’archiviazione al giudice. Questo vale a maggior ragione se il pm, pur sospettando che tutto finirà archiviato, ritiene di dover compiere degli atti di indagine: in questo caso, anche se ha iscritto il fatto a modello 45, deve procedere a “una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato” (modello 21). Insomma “è evidente che non si possa iscrivere nel registro degli atti non costituenti reato (modello 45) un’informativa con la quale viene riferito un fatto che integra inequivocabilmente un reato”. E figurarsi se si può farlo quando a segnalare sei reati è la Consob; e quando si compiono atti di indagine, come fa la Procura di Roma sul caso Renzi-De Benedetti. Lì, pur non delegando indagini al nucleo valutario della Gdf che già lavorava per la Consob, il pm ha comunque fatto qualche pallida indagine, disponendo una consulenza tecnica e interrogando Renzi, De Benedetti e Bolengo. In questo caso, par di capire dalla circolare ministeriale, la via maestra sarebbe stata l’iscrizione dei tre nel registro degli indagati (modello 21) per insider trading e/o ostacolo alla vigilanza.
Il Testo Unico della Finanza del 1998 sull’insider trading (in parte depenalizzato nel 2004 per la parte degli insider secondari) pare chiaro: commette quel reato “chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi, con strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio…”.
Parole che sembrano cucite addosso sia a Renzi (possiede informazioni privilegiate sul suo decreto in ragione della sua funzione pubblica: l’insider primario, anzi l’insider premier), sia a De Benedetti e a Bolengo (l’uno, insider primario anche lui, fa acquistare all’altro, insider secondario, le azioni delle Popolari per conto proprio, utilizzando le informazioni medesime). Il che non significa che, una volta indagati, i tre dovessero per forza essere rinviati a giudizio e condannati: avrebbe anche potuto emergere che tutti e tre, o alcuni dei tre, fossero innocenti. Ma a deciderlo, per tutti, sarebbe stato il gip con un provvedimento motivato, nella massima trasparenza.
Invece il pm di Roma indaga a modello 21 Bolengo, cioè il terzo anello della catena. Ma non i primi due, cioè Renzi (l’insider di De Benedetti, secondo lo stesso De Benedetti) e De Benedetti (il mandante di Bolengo), che vengono sentiti come semplici testimoni. Poi la Procura chiede l’archiviazione per Bolengo al gip, che da due anni non ha ancora deciso se disporla o respingerla, mentre non potrà pronunciarsi su Renzi e De Benedetti, ormai al sicuro nel cassonetto del modello 45.
Tutto ciò viene alla luce mentre il pm di Napoli Henry John Woodcock viene trascinato dinanzi al Csm per rispondere di “inescusabile negligenza” e “grave violazione del diritto di difesa” per aver fatto la stessa cosa della Procura di Roma, ma nell’inchiesta Consip, dove non iscrisse nel registro degli indagati Filippo Vannoni e lo sentì come testimone. Mentre la Procura di Roma che ha così bene indagato sull’insider trading apre un’inchiesta sulla fuga di notizie sulla sua richiesta di archiviazione dalla Commissione parlamentare banche. E mentre l’Anticorruzione apre un’istruttoria su Spelacchio. Giustizia è fatta.
chi è il gegnio della finanzia che fa 600 mila soldi in pochi giorni ?
eccolo qui
Una cavalcata lunga oltre mezzo secolo. La carriera di imprenditore di Carlo De Benedetti si lega strettamente alla storia dell’Italia repubblicana. Rientrato in patria dalla Svizzera nel ’45, dove si era rifugiato con la famiglia di origini ebraiche per sfuggire alla deportazione in Germania. Classe 1934, prende la laurea in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino nel ’58. Giusto il tempo di chiudere i libri e il padre Rodolfo lo fa entrare nell’azienda di famiglia, la Compagnia italiana tubi metallici. La svolta arriva però più di un decennio dopo, era il 1972, quando acquista assieme al Fratello Franco (che di cognome però fa Debenedetti, tutto attaccato come il padre Rodolfo) la Gilardini, società quotata alla Borsa di Milano che fino ad allora aveva operato nell’immobiliare.
A casa Agnelli - L’Ingegnere cambia radicalmente settore di business e la trasforma in una holding, la prima di una lunga serie, impegnata nell’elettromeccanica. Ma proprio attraverso la Gilardini De Benedetti può compiere il primo grande passo nei salotti buoni dell’economia italiana. Era il ’76 quando, grazie all’appoggio dell’ex compagno di scuola Umberto Agnelli, viene nominato amministratore delegato della Fiat, portando in dote il 60% delle azioni Gilardini che cede ai suoi nuovi «padroni» (si fa per dire), in cambio di un 5% del Lingotto. Ma l’idillio dura poco: tre mesi e la luna di miele con la dinasty piemontese dell’auto finisce. De Benedetti si dimette. Sulla vicenda si fece in quei mesi una varietà sconfinata di ipotesi. La più suggestiva riferiva di una scalata tentata dai due fratelli (Carlo aveva portato alla corte degli Agnelli anche Franco), alla Fiat con l’appoggio di una cordata svizzera. La verità, al riguardo, probabilmente non è ancora stata scritta. La rottura, comunque, è traumatica. Le vie dell’Ingegnere e quelle dell’Avvocato per molti anni si incroceranno e non sempre in maniera amichevole. Gli Agnelli, su indicazione di Mediobanca affidano la guida unica del gruppo automobilistico all’altro astro nascente del gruppo: Cesare Romiti che resterà a cavallo per i successivi ventidue anni.
Affari sfumati - L’Ingegnere, dal canto suo inaugura al Lingotto una lunga serie di affari sfumati o finiti maluccio, dai quali però – e questa sarà una costante in tutta la sua carriera imprenditoriale – è uscito indenne. Anzi: con le tasche piene. Chiusa la parentesi nelle quattro ruote, nel dicembre di quello stesso anno, il 1976, rileva dai conti Bocca le Concerie industriali riunite, che trasforma in breve in una holding industriale ribattezzandola Cir. Abbandonato l’originale business nella lavorazione dei pellami, comincia la campagna acquisti che lo porta, nel '78, a guidare l'Olivetti.
Patto con Visentini - A condurre le trattative è Bruno Visentini che guida l’azienda in rappresentanza di un malfermo patto di sindacato allestito da Mediobanca. Gli splendori raccontati nella fiction tv interpretata da Luca Zingaretti sono lontani. L’avventura nell’Elea, il calcolatore nato forse troppo presto, è stato venduto alla General Electric che abbandonerà il progetto. Anche i membri del patto di sindacato non vedono l’ora di trovare una soluzione e uscire. La Fiat, con l’entrata di De Benedetti venderà immediatamente la sua quota. Dalla plancia di comando del gruppo di Ivrea intercetta il boom dell’informatica e dei personal computer. Dalla fabbrica di piemontese esce l’M24, il computer europeo di maggior successo nei primi anni Ottanta. Ma pure in quel caso il finale non è stato felice. L’alleanza con la AT&T, in quel momento la più grande compagnia telefonica del mondo, doveva lanciare l’azienda italiana nell’olimpo dei grandi fabbricanti mondiali. Gli americani dovevano superare il trauma dello spezzatino: l’autorità Antitrust aveva ordinato di fare a pezzi il colosso dando vita alle sette “Baby Bell”. L’alleanza con Olivetti era sembrato ai vertici di quel che restava di AT&T il modo migliore per riprendere la leadership mondiale. A suggellare il successo dell’iniziativa, celebrato sui giornali di tutto il mondo con tonnellate di miele, doveva essere l’accesso, per gli italiani, ai Bell Laboratories, il centro di ricerche del colosso texano che in quel momento rappresentava la frontiera dell’innovazione all’incrocio tra computer e telefono.
Arriva AT&T - Gli americani presero anche una quota nel capitale di Olivetti come promessa di fedeltà eterna ma i computer che partono da Ivrea per gli Stati Uniti restano invenduti nei magazzini. Di fronte al fallimento AT&T prepara il divorzio: prima dichiara che la partecipazione nel gruppo italiano ha solo carattere finanziario. Finito il boom della prima informatizzazione, l’Olivetti non sa fare il passo successivo che condusse i colossi del settore a produrre non più strumenti di lavoro ma dispositivi elettronici di moda. Come è accaduto alla Apple.
E proprio attorno all’azienda di Cupertino e al suo fondatore lo scomparso Steve Jobs, si dipana un altro degli affari mancati dell’Ingegnere.
No a Steve Jobs - Erano i primi anni ’80 quando De Benedetti nella Silicon Valley con un team di 300 progettisti italiani della Olivetti, vede Jobs. Sponsor dell’incontro Elserino Piol, allora direttore generale del gruppo, diventato successivamente uno dei maggiori venture capitalist italiani (è stato lo scopritore di Tiscali). «Steve Jobs mi chiese se ero disposto a mettere un milione di dollari di allora per avere il 20% dell’azienda», confessò De Benedetti tempo dopo, «io dissi a Piol: non stiamo a perdere tempo con questi due ragazzi, abbiamo cose più serie da fare». Oggi quell’investimento varrebbe oltre 90 miliardi e soprattutto avrebbe consentito di scrivere una storia molto diversa per l’industria elettronica italiana. Ma comunque la storia sarebbe stata diversa se nel 1981 non avesse tentato, con una mossa incomprensibile di diventare anche banchiere. Aveva preso il 2% del Banco Ambrosiano che la gestione di Guido Calvi aveva portato sull’orlo del fallimento. Era stato proprio il «banchiere dagli occhi di ghiaccio» a offrirgli la vicepresidenza forse nel tentativo di costruirsi l’ultimo salvagente. La convivenza sarebbe durata appena due mesi e la liquidazione di 40 milioni aveva dato, soprattutto, l’impressione del prezzo pagato da Calvi per il silenzio dell’Ingegnere. Due processi e poi l’assoluzione in Cassazione. Per non parlare della scalata alla Sgb, nel 1988. La società possiede mezzo Belgio e sembra una preda facile se non fosse protetta dai francesi di Suez. Lo scontro di Borsa si conclude con la vittoria del blocco franco-belga per 51% a 49%. L’ingegnere che era sbarcato a Bruxelles annunciando «la fine della ricreazione» torna in Italia sconfitto. Impiegherà tre anni a disincagliare l’investimento
Addio a Ivrea - Nel ’98 De Benedetti molla l’Olivetti, entrata in una crisi profonda come buona parte dei produttori di computer. Le azioni nel frattempo sono crollate da 21mila lire a 600 lire. Una distruzione di ricchezza di almeno 15mila miliardi di vecchie lire. Al comando rimane Roberto Colaninno che l’anno successivo lancia un’Opa su Telecom da 61mila miliardi delle vecchie lirette. Ma questa è un’altra storia. Prima di passare la mano ebbe il tempo di lanciare la Omnitel, secondo operatore di telefonia dopo la Tim. Valutata 750 miliardi di lire quando, era il ’94, si aggiudica la licenza Gsm, è stata poi rivenduta ai tedeschi della Mannesman per 14mila miliardi. Gran colpo per l’ingegnere. Molto meno per la telefonia tricolore, anche se la società, finita in pancia all’inglese Vodafone dopo la scalata ostile alla Mannesmann, conserva in Italia un forte profilo industriale. Non grazie all’Ingengere.
Il fondo M&C - Un’altra tappa di quel «capitalismo cannibale» - come lo ha definito Mario Giordano – riguarda la M&C, acronimo che sta per Management e Capitali. Fondata nel 2006 per risanare le imprese in crisi si è segnalata soprattutto per l’acquisto della Domopak, storico marchio di prodotti per la cucina, nota per le pellicole con cui proteggere gli alimenti, rilevata assieme al concorrente Cuki. Subito i primi 190 licenziamenti, scioperi, proteste. Dopo qualche mese non si è saputo più nulla fino all’inizio del 2009, quando le due società produttrici di pellicole trasparenti e in alluminio finiscono alla Comital di Corrado Ariaudo, ex ad proprio di M&C.
Cdb Web Tech - In mezzo tante operazioni dai confini incerti come quella di Cdb Web Tech nata da una costola di Aedes, una vecchia immobiliare per anni controllata dall’Accademia dei Lincei. Poi c’è il coinvolgimento in Tangentopoli per le macchine vendute da Olivetti a Poste. Lo scontro con Berlusconi per il controllo della Mondadori. È la “battaglia di Segrate” che venticinque anni dopo gli frutterà un risarcimento di circa 350 milioni di euro. I soldi, cioè, che in questo momento consentono al gruppo di evitare di crollare nel buco nero di Sorgenia. Infine l’acquisto del gruppo Espresso-Repubblica. Certamente il miglior affare dell’Ingegnere. Ma a crearlo erano stati Scalfari e Caracciolo. Non lui.
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